Il diritto alla difesa sancito dalla Carta Costituzionale, è un principio che da un lato grava sull’apparato pubblicistico che deve garantire il diritto di tutti i cittadini, di poter difendere le proprie ragioni avanti agli organismi che amministrano la giustizia ordinaria, dall’altro lato, non impone per forza, ai cittadini medesimi, l’obbligo di sottoporsi agli apparati istituzionali (giudiziari) noti. Pertanto, il ricorso ai metodi c.d. alternativi anche noti come a.d.r. (alternative dispute resolution) qual è la mediazione civile deve ritenersi pienamente consentito.

Occorre allora chiedersi, in primo luogo, se la mediazione sia davvero una forma assolutamente preclusiva, rispetto alla giustizia ordinaria e d’altro canto, se la giustizia rappresenti un mezzo di tutela effettivo e concreto dei diritti fatti valere.

Al primo quesito, è facile rispondere negativamente ove si raffrontino due procedimenti a.d.r. molto diversi tra loro (anche se talvolta confusi tra loro) quali l’arbitrato e la mediazione. Nel primo, evidentemente, si ha una vera e propria surrogazione integrale del giudizio “privato” al sistema pubblicistico ordinario di amministrazione della giustizia. Nel secondo caso invece, non si ha un’alternativa in tal senso, ma, unicamente, la preclusione temporanea dell’accesso alle vie della giustizia statale, affinché le parti negozino e verifichino in concreto con l’ausilio di un terzo imparziale, nell’ambito di una procedura riservata e flessibile, se vi sia concreta possibilità di dirimere la controversia salvaguardando interessi e bisogni concreti e sottesi delle parti.

E’ proprio per tali ragioni, del resto, che le clausole contrattuali che prevedono la deroga alla giustizia ordinaria in favore di quella arbitrale (c.d. clausole compromissorie) sono ritenute di natura vessatoria, mentre non lo sono, quelle che prevedono il previo esperimento di un tentativo di mediazione tra le parti.

Poste tali premesse, andremo ora ad analizzare alcune casistiche in cui la Corte Costituzionale era già intervenuta, in passato, statuendo e fissando principi idonei a decretare la piena legittimità costituzionale della mediazione e della conciliazione.

Appare evidente, come il dilemma concerna, essenzialmente, l’esigenza di contemperare da un lato l’obbligatorietà di un istituto stragiudiziale quale la mediazione, con quella di qualunque cittadino, di potere adire le vie legali per tutelare i propri diritti soggettivi ed interessi.

1) L’art. 24 Cost. non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti e non vieta quindi che la legge possa subordinare l’esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri tali e prescritte modalità  tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività (Corte Cost. 13.4.1977 n. 63).

2) In materia di contratti agrari, come noto, l’art. 46 della legge 3 maggio 1982 n. 203 impone il ricorso ad una procedura conciliativa a pena di improcedibilità dell’azione. La Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità della norma predetta, ha statuito che “non può ravvisarsi, nello speciale onere del previo tentativo di conciliazione un adempimento vessatorio di difficile osservanza né una insidiosa complicazione processuale tale da ledere il diritto di difesa dell’attore” (Corte Cost. 21.1.1988 n. 73).

3) In ambito lavoristico, la legge 11 maggio 1990 n. 108 recante la disciplina dei licenziamenti individuali prevede che la domanda reintegratoria o risarcitoria, debba essere preceduta dall’esperimento di una procedura conciliativa, che, anche in tale caso, è stata ritenuta perfettamente conforme ai dettami della Carta Costituzionale: “il rigore con cui è tutelato il diritto di azione, secondo la previsione dell’art. 24 della Costituzione, non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento … l’adempimento di un onere, lungi dal costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa sostanziale, rappresenta il modo di soddisfazione della pretesa sostanziale più pronto e meno dispendioso … evitare l’abuso, o ancor meglio l’eccesso della giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale, è stato sovente la ratio espressa della <<giurisdizione condizionata>>. Il principio dell’economia processuale, inteso come più efficace e pronta soluzione dei conflitti, ha solitamente fondato la rispondenza dei condizionamenti censurati alla previsione costituzionale del diritto di azione” (Corte Cost. 4.3.1992 n. 82). Per la prima volta, con tale pronuncia, la Consulta non solo afferma la piena compatibilità dei sistemi a.d.r. con quelli giurisdizionali, ma, addirittura, li pone su un rango elevato, tesi, cioè, a perseguire un più corretto e razionale uso degli “strumenti” offerti dall’ordinamento per meglio salvaguardare gli interessi della giurisdizione medesima.

4) Riflessioni simili possono essere svolte relativamente alle procedure conciliative di cui all’art. 410 c.p.c. Il d.lg. 31 marzo 1998 n. 80 aveva modificato da facoltativa ad obbligatoria la procedura de qua (recentemente, peraltro, ancora “derubricata” a procedura non obbligatoria). Ciò aveva suscitato dubbi sulla legittimità costituzionale della norma sicché, molti tribunali avevano, nel corso di altrettanti procedimenti, sollevato le relative questioni con apposite ordinanze di rimessione. La Consulta ha sancito che “l’asserita inefficienza dell’attuale assetto del tentativo obbligatorio di conciliazione alla luce dell’esperienza non potrebbe comunque valere di per sé a porre le norme che lo prevedono in contrasto con il parametro denunciato. Se infatti è vero che l’art. 24 Cost. garantisce una tutela giurisdizionale “effettiva”, al di là della sua proclamazione formale, è altrettanto vero che in tanto l’ineffettività del modo di tutela può risolversi nella violazione di una norma costituzionale, in quanto derivi direttamente dalla legge così come formulata e strutturata e non dalle modalità più o meno efficaci, della sua applicazione. La valutazione degli eventuali limiti della concreta attuazione della legge compete infatti alla Pubblica Amministrazione, per l’apprestamento degli strumenti più idonei consentiti dalle norme vigenti, mentre spetta la legislatore l’adozione delle eventuali modifiche che l’esperienza rivelasse opportune” (Corte Cost. 13.7.2000 n. 276). La Corte poi prosegue nella disamina delle questioni sollevate, affrontando altresì la tematica del “ritardo” nell’accesso alla giustizia ordinaria seguendo le vie della conciliazione: “in ordine al ritardo, la giurisprudenza consolidata di questa Corte ritiene che l’art. 24 della Costituzione, laddove tutela il diritto di azione, non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare “interessi generali”, con le dilazioni conseguenti. E’ appunto questo il caso in esame, in quanto il tentativo obbligatorio di conciliazione tende a soddisfare l’interesse generale sotto un duplice profilo: da un lato, evitando che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento; dall’altro, favorendo la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito attraverso il processo … Quanto all’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento del tentativo di conciliazione, tale sanzione, lungi dal risolversi in una questione processuale inutile, rappresenta la misura con la quale l’ordinamento assicura l’effettività dell’osservanza dell’onere. Dal suo canto, l’estinzione del giudizio per mancata tempestiva, riassunzione (art. 412 bis quinto comma c.p.c.) costituisce normale applicazione del principio generale che considera con sfavore l’inattività delle parti“. La pronuncia, entra poi nel vivo della questione relativa al rapporto tra l’esperimento del tentativo obbligatorio e il procedimento monitorio laddove, nel fornire un’interpretazione ermeneutica conforme al dettato costituzionale, afferma che “il tentativo obbligatorio di conciliazione è strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio. La logica che impone alle parti di “incontrarsi” in una sede stragiudiziale, prima di adire il giudice, è strutturalmente collegata ad un (futuro) processo destinato a svolgersi fin dall’inizio in contraddittorio fra le parti. All’istituto sono quindi per definizione estranei i casi in cui invece il processo si debba svolgere in una prima fase necessariamente senza contraddittorio, come accade per il procedimento per decreto ingiuntivo. Non avrebbe infatti senso imporre, nella fase pregiurisdizionale relativa al tentativo di conciliazione, un contatto fra le parti che invece non è richiesto nella fase giurisdizionale ai fini della pronuncia del provvedimento monitorio … Per i procedimenti cautelari … l’art. 669 sexies c.p.c. prevede come regola il provvedimento in contraddittorio e solo come eccezione quello reso inaudita altera parte. Quanto ai “provvedimenti speciali d’urgenza” … il contraddittorio è assicurato fin dall’inizio e trae giustificazione dal carattere ddi urgenza della tutela da essi apprestata. Questi rilievi spiegano perché il legislatore delegato abbia ritenuto di dovere esplicitamente prevedere l’esclusione di tali procedimenti dalla soggezione al previo espletamento del tentativo di conciliazione. Sarebbe invece incongruo interpretare la norma nel senso che essa, in forza di un argomento a contrario, debba comportare l’assoggettamento al tentativo di un procedimento in cui il contraddittorio è differito, come il procedimento monitorio“.

5) Ancora più recentemente in materia di telecomunicazioni, a fronte dell’obbligo di conciliazione previsto dalla legge 31 luglio 1977 n. 249, la Corte ha dichiarato che il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione non impedisce, neppure in questo specifico settore, la proponibilità di una domanda diretta ad invocare una tutela cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c.: “La tutela cautelare, infatti, in quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale in particolare a non lasciare vanificato l’accertamento del diritto è uno strumento fondamentale ed inerente a qualsiasi sistema processuale (sentenza n. 190 del 1985) anche indipendentemente da una previsione espressa (Corte di Giustizia delle Comunità europee, sent. 19 giugno 1990 causa C – 213/89, Factortame) … Alla luce delle richiamate indicazioni … si deve quindi interpretare la predetta disposizione nel senso che il mancato esperimento del prescritto tentativo di conciliazione non preclude la concessione di provvedimenti cautelari. Tale opzione interpretativa … consente di fugare i dubbi di legittimità costituzionale proposti dal rimettente e si impone pertanto come doverosa, in linea con l’ormai consolidato orientamento di questa Corte secondo il quale una disposizione deve essere dichiarata incostituzionale non perché può essere interpretata in modo tale da contrastare con i precetti costituzionali, ma soltanto qualora non sia possibile attribuire ad essa un significato che la renda conforme alla Costituzione” (Corte Cost. 30.11.2007 n. 307).

Dal raffronto delle principali casistiche esaminate, è auspicabile che il percorso di disamina della legittimità dell’impianto normativo di cui al d.lgs. 28/2010 per il quale è attesa la pronuncia della Consulta a fine ottobre 2012, si avvierà (quanto meno per gli aspetti concernenti la conformità all’art. 24 Cost.) verso un esito positivo e sostanzialmente conforme nonché sulla stessa linea solcata dai citati autorevoli precedenti espressi dalla giurisprudenza costituzionale, tanto più che, per quanto concerne la mediazione civile e commerciale, il legislatore si è premurato di escludere espressamente dal novero della mediazione, i procedimenti monitori, cautelari, e sommari, nonché tutte quelle vertenze ove oggetto di contesa siano diritti non disponibili.