Ringraziamo per questo contributo sulla sentenza della Corte Costituzionale numero 229 del 21 ottobre 2015 l’amico Giurista per la Vita dott. Francesco Mario Agnoli, che ce ne autorizza la pubblicazione. La sentenza rappresenta, purtroppo, l’ennesimo colpo “di scure” verso una legge che, probabilmente, è stata fin dall’origine mal concepita e, ormai secondo molti autori, non avrebbe mai dovuto esserci in quanto i pretesi fini di “salvaguardia” della vita nascente sono oggi del tutto capovolti, in forme di assoluta minaccia verso gli embrioni umani. Augurando buona lettura, rammentiamo che il testo si trova riportato anche nella sua primaria fonte, nel sito Domus Europa.

La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere su ricorso del Tribunale di Napoli, che stava giudicando due operatori della fecondazione in vitro, della legittimità costituzionale di alcune superstiti norme della legge 40/2004. Di conseguenza, con la sentenza n. 229/2015 ha  dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 13, commi 3 lettera b) e 4 della legge n.40/2004 “nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche se finalizzata esclusivamente ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili”. Ha invece respinto, in quanto infondata, la questione riguardante l’articolo 14, commi 1 e 6, della legge 40, che punisce la “soppressione degli embrioni soprannumerari”.

Dal punto di vista della logica giuridica la motivazione della pronuncia di incostituzionalità si presenta ineccepibile alla luce della situazione normativa conseguente all’opera di radicale smantellamento cui è stata sottoposta dalla giurisprudenza la legge 40. E’ ben vero che l’attuale testo di questa legge (quel poco che ne rimane) è frutto dei precedenti interventi della Corte costituzionale, ma, dal momento che il nostro ordinamento giuridico attribuisce de facto alla Corte (e, indirettamente, anche ai giudici ordinari) una forma di potere legislativo, qualunque cosa si pensi della compatibilità democratica di questo potere, non resta che prendere atto della situazione e dei suoi prodotti.

In realtà la sentenza n. 229 in oggetto è la conseguenza necessitata della sentenza n. 96/2015 con la quale, pochi mesi fa, la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge 40 nella parte in cui vietava l’accesso alla fecondazione assistita e alla diagnosi pre-impianto alle coppie fertili, ma affette da gravi malformazioni genetiche trasmissibili ai nascituri (artt, 1/commi 1,2, 4, e 4/comma 1). Decisione quest’ultima motivata sulla base della illogica contraddizione (“antinomia normativa” scrive la Corte, che richiama al riguardo anche la sentenza della Corte di Strasburgo “Costa e Pavan contro Italia”) in cui tale disposizione veniva a trovarsi col diritto di procreare figli non affetti da tale patologia ereditaria. Diritto riconosciuto alla coppia dall’ordinamento giuridico italiano “attraverso la innegabilmente più traumatica modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita dall’art. 6/comma 1 lettera b) della legge 22/5/1978 n. 194 quando dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto, accertati processi patologici […] relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.

Inevitabile, dopo questa decisione, il passo ulteriore, adesso compiuto, perché altrettanto contraddittorio sarebbe ammettere, da un lato, le coppie   alla procreazione assistita per evitare il rischio di nascituri malformati e la conseguente “necessità” di successivo ricorso all’aborto, e, dall’altro, non solo non consentire, ma sanzionare penalmente la selezione degli embrioni indispensabile per evitare l’impianto di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili ai nascituri.

Forse un po’ meno necessitata la motivazione della seconda parte della sentenza, che la Corte riconduce al riconoscimento della tutela dell’embrione di cui alla propria decisione n. 151/2009, anche se in realtà diretta più a trovare deroghe alla tutela che a confermarla,[1], dichiarando   l’ infondatezza del dubbi del Tribunale di Napoli sul divieto (e conseguente punibilità) di soppressione degli embrioni, che, anche se malformati, non possono essere trattati “tamquam res”, come cose. Afferma la Corte che la loro malformazione “non ne giustifica sol per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni creati in numero superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, ex comma 2 del medesimo art. 14 nel testo risultante dalla sentenza n. 151 del 2009, si prospetta infatti l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione[2]”.

Vi è vero il diritto all’aborto, che ha un ruolo fondamentale nell’intera vicenda normativo-giudiziaria, e che consente la soppressione dell’embrione malformato anche in una fase successiva e a volte assai avanzata (zigote, feto ecc.) del suo sviluppo. Nel caso però dell’aborto il diritto alla vita del feto (di ogni feto, non solo quello di malformato) è suscettibile di “affievolimento” solo se entra in conflitto con “altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti”. Nel caso dell’embrione malformato ma non impiantato e adesso non più impiantabile la Corte non ha individuato contrapposti interessi la cui tutela ne giustifichi la soppressione. Di qui la decisione.

Un risultato diverso sarebbe stato possibile solo accettando la tesi degli ultra-abortisti, quelli che si spingono fino a polemizzare con la pubblicità antifumo in gravidanza, perché affermando che il fumo fa male, oltre che alla madre, al feto se ne riconosce l’umanità. Per loro l’embrione è puro e semplice “materiale biologico”. I giudici costituzionali non se la sono sentita di spingersi così in là, e hanno riconosciuto che l’embrione “quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico”.

Tornando alla prima questione sollevata dal tribunale partenopeo, le argomentazioni che hanno portato la Corte alla pronuncia di incostituzionalità sono così logiche e convincenti che viene fatto di domandarsi cosa mai avesse in mente chi ha proposto, sostenuto e varato una legge tanto contraddittoria come la 40. Per capirlo occorre tenere conto che il legislatore del 2004 era grandemente allarmato dal fortissimo pericolo (oggi in via di attuazione) di degenerazione eugenetica delle pratiche di fecondazione assistita, e avere ben chiaro   che tanto la legge quanto la sentenza si collocano   in due momenti diversi del processo di passaggio da una civiltà a un’altra, caratterizzata da valori diversi e spesso antinomici, fase di passaggio   di cui comunque entrambe fanno parte. Nella legge 40, pur in una impostazione di fondo che, nel tentativo di disciplinarla per esorcizzare lo spettro dell’eugenetica, riconosce comunque la legittimità della fecondazione assistita, quindi della produzione dell’uomo attraverso un processo tecnico, si avverte ancora l’influenza della civiltà laico-cristiana, che, riconoscendo valori e principi di ordine superiore, non consente che questi valori e questi principi vadano totalmente sacrificati alle passioni e ai desideri individuali, e nemmeno che sia lecito fare tutto ciò che la tecnica consente solo perché lo consente. Una civiltà nella quale si credeva che toccasse alla tecnica e alle passioni adeguarsi e non viceversa. Nella sentenza della Corte costituzionale questi influssi ed echi suonano ormai remoti mentre il ruolo preponderante nella formazione delle regole-base della vita sociale viene riconosciuto   alla tecnica e alla sua crescente capacità di soddisfare qualsiasi desiderio e pulsione individuale, che risultano quindi decisivi. Tuttavia persiste ancora nella cultura, nel sentire comune, un’eco della vecchia civiltà, che, non avvertita dai giudici del Tribunale napoletano, è stata invece colta dai giudici costituzionali. Questi ultimi si sono, appunto, rifiutati di considerare l’embrione tamquam res cioè materiale biologico e gli hanno riconosciuto un certo grado di umana soggettività e, quindi, di dignità. Si tratta però di una posizione della cui marginalità e debolezza gli stessi giudici sono consapevoli tanto che riconoscono dovuta la tutela solo perché al momento non hanno individuato contrapposti interessi davanti ai quali quelli, già residuali, dell’embrione dovrebbero ulteriormente “affievolirsi”. Con ogni probabilità si tratta solo di attendere che i progressi della tecnica o nuove passioni e mode individuino altri interessi prevalenti. Giacomo Rocchi in un articolo per la Bussola Quotidiana, nel quale critica il riconoscimento per via giudiziaria del diritto all’eugenetica e la concretizzazione della cultura dello scarto, ne individua fin d’ora di possibili (o probabili) nell’utilizzo degli embrioni soprannumerari per la ricerca scientifica (da sacrificare, quindi, alle esigenze della tecnica), di cui si discuterà davanti alla Corte costituzionale nell’udienza del 22 marzo 2016).

                                                                     Francesco Mario Agnoli

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[1]    La sentenza in. 151/2009 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma (art. 14/comma 2) che stabiliva il divieto di “creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” e ha, di conseguenza, allargato fino a renderlo strumento indispensabile per l’applicazione della legge il ricorso alla crioconservazione degli embrioni, tecnica vietata invece, unitamente alla loro soppressione, dalla legge , che la consentiva solo, e per un periodo di tempo limitato, in presenza di “grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione” per garantirne la conservazione “fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile”. Nella motivazione si afferma (in realtà con un ragionamento alquanto specioso “poiché anche nel caso di limitazione a soli tre del numero di embrioni prodotti, si ammette comunque che alcuni di essi possano non dar luogo a gravidanza, postulando la individuazione del numero massimo di embrioni impiantabili appunto un tale rischio”)   che “la legge rivela un limite alla tutela apprestata all’embrione (…) consentendo un affievolimento della tutela dell’embrione al fine di assicurare concrete aspettative di gravidanza in conformità alle finalità previste dalla legge”. Si riconosce, quindi, che la legge 40 prevede una tutela per l’embrione, che viene implicitamente considerata costituzionalmente legittima, ma ciò che soprattutto rileva per la Corte è l’individuazione dei casi di affievolimento di tale tutela.

[2]    Si noti che, come evidenziato nella nota precedente, l’impiego massiccio della crioconservazione per l’applicazione della legge 40 è frutto di un sentenza della Corte costituzionale. Come si è detto, la legge 40 consentiva il ricorso alla crioconservazione solo in casi eccezionali e per un tempo il più breve possibile e all’art. 14/comma 1 assimilava la crioconservazione degli embrioni fuori dell’unico caso consentito alla loro soppressione (“È vietata la crioconservazione e la soppressione di embrioni, fermo restando quanto previsto dalla legge 22 maggio 1978, n. 194”). Dal momento che è difficile immaginare che qualcuno (qualcuna) si offra per l’impianto nell’utero di un embrione già identificato come malformato, l’invio degli embrioni alla crioconservazione per effetto dell’incontro-scontro di una legge e di provvedimenti giudiziari, frutto sia l’una che gli altri della malriuscita commistione di principi appartenenti a due diverse forme di civilizzazione, determina di fatto, salvi i limiti della tecnica e dei costi (cinquant’anni?), una loro condanna al silenzioso inferno dei ghiacci eterni (196° sotto zero).