La Suprema Corte è intervenuta pesantemente nell’interpretazione dell’articolo 51 comma 2 numero 2 del d.p.r. 633/1972. In questa inquietante sequenza numerica, in effetti, è contenuta una norma pericolosissima per il contribuente. In sostanza, afferma (anzi ribadisce) la Cassazione con l’ordinanza numero 11650 del 26 maggio 2011 che laddove il contribuente utilizzi un conto corrente bancario per fini promiscui, o comunque, un conto corrente bancario che finisca nelle mire di un accertamento tributario di tipo “induttivo” (si pensi al conto corrente utilizzato da un imprenditore o professionista, che comunque deve necessariamente soddisfare anche bisogni personali e della famiglia) orbene questi deve comunque essere sempre in grado di dimostrare che i prelievi effettuati, non si riferiscono ad operazioni c.d. “imponibili” (ossia correlate all’attività d’impresa) bensì ad usi privati. Sicché, a titolo d’esempio, al di fuori di tutti i casi in cui si acquista il frigorifero od il televisore utilizzando un servizio p.o.s. o carta di credito (che rendono evidente la destinazione della somma per fini privati), ogni qualvolta un soggetto prelevi dallo sportello o dal bancomat cento euro, per soddisfare desideri privati (collezione di francobolli, acquisto di giornali o riviste, o altro che generalmente non necessita del rilascio di scontrini o ricevute fiscali), ovvero per soddisfare il desiderio o bisogno di un figlio (una gita collettiva con i compagni, l’iscrizione ad un campo solare, altri svaghi, in cui generalmente non si ottiene una certificazione fiscalmente idonea), ecco, in tutte tali ipotesi, il contribuente è onerato dal dovere provare la destinazione finale del prelievo eseguito. Altrimenti, in difetto di giustificazione, il prelievo viene imputato a reddito. Se poi, a questo, aggiungiamo che in base alla normativa che disciplina il processo tributario non è ammessa la prova “testimoniale”, ma unicamente quella “documentale” (cfr. articolo 7 comma 4 d.lgs. 546/1992) appare evidente come la prova richiesta al contribuente, sia davvero definibile come probatio diabolica. Sicché, ogni qualvolta il contribuente “acquista francobolli”, o invia il figlio in gita scolastica pagando i “cento” euro di quota, in teoria, dovrebbe pretendere dal proprio interlocutore una ricevuta con tanto di data (che comunque, si noti, non sarebbe “data certa” agli effetti civili ex art. 2704 c.c., essendo tuttavia possibile ottenerla tramite i servizi postali che vi provvedono con il noto timbro “guller”) idonea quanto meno a porre un indizio adeguato per vincere la presunzione tributaria. Dunque, occorre prendere atto di un tale rigoroso orientamento giurisprudenziale: pochi allarmismi e più attenzione a documentare le operazioni compiute.