Cercheremo di esporre, in modo succinto, sulla base di quali specifiche e sostanziali motivazioni la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della mediazione obbligatoria per eccesso di delega, con la recente sentenza n. 272 del 2012 le cui motivazioni sono state oggi pubblicate.

Premettono i giudici della Consulta, che il contenuto della delega va identificato considerando il complessivo contesto normativo in cui si collocano la legge delega e i principi direttivi nonché le finalità specificamente perseguite.

Occorre, in particolare, che i requisiti che fungono da “cerniera tra i due atti normativi” tengano conto dei principi che ispirano la legge delega

Sia la legge delega che il decreto legislativo nel proprio preambolo si richiamano alla normativa dell’Unione Europea.

La Corte pertanto, si addentra in una disamina previa della direttiva europea 2008/52 CE, soffermandosi, in particolare, sul quattordicesimo Considerando che così afferma: «La presente direttiva dovrebbe inoltre fare salva la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto ad incentivi o sanzioni, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario. Del pari, la presente direttiva non dovrebbe pregiudicare gli attuali sistemi di mediazione autoregolatori nella misura in cui essi trattano aspetti non coperti dalla presente direttiva». Il principio, poi, è ripreso e precisato nell’art. 3, lettera a), della direttiva medesima che, dopo avere definito la mediazione come «un procedimento strutturato, indipendentemente dalla denominazione, dove due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore», in ordine alle modalità stabilisce che «Tale procedimento può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro».

Inoltre, la Consulta richiama l’importante art. 5, comma 2, della direttiva a tenore del quale, «La presente direttiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario».

La Corte richiama anche la Risoluzione del Parlamento europeo in data 25 ottobre 2011 (2011/2117-INI) e la risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2011 (2011/2026-INI), relativa all’attuazione della direttiva sulla mediazione negli Stati membri, impatto della stessa sulla mediazione e sua adozione da parte dei tribunali. Tale risoluzione, nel passare in rassegna le modalità con cui alcuni degli Stati membri hanno attuato la direttiva citata, osserva nel paragrafo 10 che «nel sistema giuridico italiano la mediazione obbligatoria sembra raggiungere l’obiettivo di diminuire la congestione nei tribunali; ciononostante sottolinea che la mediazione dovrebbe essere promossa come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso costo e più rapida, piuttosto che come un elemento obbligatorio della procedura giudiziaria».

Infine, la Consulta non trascura nemmeno di richiamare la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 18 marzo 2010, Sezione quarta, pronunciata nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08, con cui vengono affermati i seguenti principi: a) l’art. 34 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, n. 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale) deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale le controversie in materia di servizi di comunicazione elettronica tra utenti finali e fornitori di tali servizi, che riguardano diritti conferiti da tale direttiva, devono formare oggetto di un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale come condizione per la ricevibilità dei ricorsi giurisdizionali; b) neanche i principi di equivalenza e di effettività, nonché il principio della tutela giurisdizionale effettiva, ostano ad una normativa nazionale che impone per siffatte controversie il previo esperimento di una procedura di conciliazione extragiudiziale, a condizione che tale procedura non conduca ad una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione dei diritti in questione e non generi costi, ovvero questi non siano ingenti per le parti, e purché la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo imponga.

Al punto 65 della motivazione, si legge che, da un lato, non esiste un’alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, dato che l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente facoltativa non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione di detti obiettivi; dall’altro, non sussiste una sproporzione manifesta tra tali obiettivi e gli eventuali inconvenienti causati dal carattere obbligatorio della procedura di conciliazione extragiudiziale.

In sostanza, detta pronuncia rappresenterebbe un positivo “lasciapassare” per la mediazione c.d. obbligatoria.

Dopo tale attenta disamina dello scenario normativo interno ed Europeo, la Consulta afferma che “… non si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione. Fermo il favor dimostrato verso detto istituto, in quanto ritenuto idoneo a fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale, il diritto dell’Unione disciplina le modalità con le quali il procedimento può essere strutturato («può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro», ai sensi dell’art. 3, lettera a, della direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008), ma non impone e nemmeno consiglia l’adozione del modello obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio (art. 5, comma 2, della direttiva citata)”. 

In pratica, si afferma che il legislatore Europeo non ha mai vincolato all’uso della forma “obbligatoria” da parte dei singoli Stati dell’Unione, mantenendo una posizione di piena neutralità e lasciandoli del tutto liberi di optare o meno, per detto regime di obbligatorietà. Fermo il favor, dimostrato per tale istituto giuridico.

In particolare, la Corte Costituzionale reputa il principio espresso al punto 65 della motivazione (favor per la mediazione obbligatoria) non già quale principio vincolante, ma quale mero obiter dictum non vincolante.

Dunque, secondo la Consulta, interpretando e coordinando i testi della legge delega e del decreto delegato in forza dei principi di matrice comunitaria, ne deriva che alcunché può far pensare che la legge delega intendesse introdurre un sistema di mediazione improntato all’obbligatorietà.

In particolare, afferma la Consulta che “la legge delega, tra i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3, non esplicita in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione. Sul punto l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, che per altri aspetti dell’istituto si rivela abbastanza dettagliato, risulta del tutto silente. Eppure, non si può certo ritenere che l’omissione riguardi un aspetto secondario o marginale. Al contrario, la scelta del modello di mediazione costituisce un profilo centrale nella disciplina dell’istituto, come risulta sia dall’ampio dibattito dottrinale svoltosi in proposito, sia dai lavori parlamentari durante i quali il tema dell’obbligatorietà o meno della mediazione fu più volte discusso“.

Ancora, la Corte Costituzionale pone altre dure “stoccate” alla mediazione obbligatoria viziata per eccesso di delega normativa, affermando che:

1)     Non si potrebbe ritenere che il carattere obbligatorio sia implicitamente desumibile dall’art. 60 citato, comma 3, lettera a). Tale disposizione, nel prevedere che la mediazione abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, aggiunge la frase «senza precludere l’accesso alla giustizia». Si tratta, però, di un’affermazione di carattere generale, non a caso collocata in apertura dell’elenco dei principi e criteri direttivi e non necessariamente collegabile alla scelta di un determinato modello procedurale, tanto più che nella norma di delega non mancano spunti ben più espliciti che orientano l’interprete in senso contrario rispetto alla volontà del legislatore delegante di introdurre una procedura a carattere obbligatorio.

2)            In particolare: l’art. 60, comma 3, lettera c), dispone che la mediazione sia disciplinata «anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5», recante la definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia. Gli articoli da 38 a 40 di tale decreto (poi abrogati dall’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010) prevedevano un procedimento di conciliazione stragiudiziale nel quale il ricorso alla mediazione trovava la propria fonte in un accordo tra le parti (contratto o statuto). Il modulo richiamato dal legislatore delegante era, dunque, di fonte volontaria, il che non si concilia (pur volendo considerare quel richiamo come non vincolante) con un’opzione a favore della mediazione obbligatoria.

3)                      Ancora, merita di essere menzionato il disposto dell’art. 60, comma 3, lettera n), della norma di delega, alla stregua del quale nell’esercizio della delega stessa il Governo doveva attenersi (tra gli altri) al principio di «prevedere il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione». Orbene, «possibilità» di avvalersi significa, evidentemente, facoltà, e non obbligo, di avvalersi («è tenuto preliminarmente»), cui invece fa riferimento l’art. 5, comma 1, del decreto delegato. Il che si evince con chiarezza dall’art. 4, comma 3, di quest’ultimo.

La disposizione così stabilisce: «All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto ad informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20»; poi, così prosegue: «L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale». Com’è palese, si tratta di due disposizioni distinte, la prima riferibile alla mediazione facoltativa, la seconda alla mediazione obbligatoria e perciò costituente condizione di procedibilità della domanda. Tuttavia, soltanto il primo modello trova la necessaria copertura nella norma di delega. Il secondo compare nel decreto delegato, ma è privo di ancoraggio nella norma suddetta.

In seguito, la Consulta sottopone a prova di resistenza le argomentazioni addotte per verificare se in concreto il vizio di eccesso di delega, potesse considerarsi superato o superabile sotto altri profili.

Afferma, quindi, che “Tale vizio non potrebbe essere superato considerando la norma introdotta dal legislatore delegato come un coerente sviluppo e completamento delle scelte espresse dal delegante, perché – come sopra messo in rilievo – in realtà con il censurato art. 5, comma 1, si è posto in essere un istituto (la mediazione obbligatoria in relazione alle controversie nella norma stessa elencate) che non soltanto è privo di riferimenti ai principi e criteri della delega ma, almeno in due punti, contrasta con la concezione della mediazione come imposta dalla normativa delegata“.

Inoltre, la Corte Costituzionale prosegue richiamando alcuni propri precedenti che hanno negato la sussistenza del vizio di eccesso di delega in casi di mediazione obbligatoria. Ci si riferisce alla sentenza n. 276/2000 in materia di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, che ebbe a sancire la costituzionalità della mediazione obbligatoria in quanto, nel complesso della riforma di passaggio dalla giurisdizione amministrativa ad ordinaria del contenzioso del lavoro, nell’ambito dei rapporti con la P.A., tale sistema appariva idoneo alla ratio di semplificazione e razionalizzazione espresse nella riforma normativa.

Si fece così leva “sia sul contesto della riforma attuata, senza dubbio di ampio respiro ma circoscritta alle controversie nel settore del diritto del lavoro, sia sulla presenza in tale settore di un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie ai sensi dell’art. 409 cod. proc. civ., e di un tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie di pubblico impiego privatizzato. Pertanto la previsione dell’obbligatorietà, nel quadro delle «misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso» (art. 11, comma 4, lettera g, della citata norma di delega) non appariva come un novum avulso da questa, ma costituiva piuttosto il coerente sviluppo di un principio già presente nello specifico settore“.

La fattispecie qui in esame è, invece, diversa secondo il pensiero della Consulta: “a parte la differenza di contesto, essa delinea un istituto a carattere generale, destinato ad operare per un numero consistente di controversie, in relazione alle quali, però, alla stregua delle considerazioni sopra svolte, il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione non trova alcun ancoraggio nella legge delega“.

Infine, quanto alla finalità ispiratrice del detto istituto, consistente nell’esigenza di individuare misure alternative per la definizione delle controversie civili e commerciali, anche al fine di ridurre il contenzioso gravante sui giudici professionali, va rilevato che il carattere obbligatorio della mediazione non è intrinseco alla sua ratio, come agevolmente si desume dalla previsione di altri moduli procedimentali (facoltativi o disposti su invito del giudice), del pari ritenuti idonei a perseguire effetti deflattivi e quindi volti a semplificare e migliorare l’accesso alla giustizia.

Queste, di seguito, le conclusioni della Consulta:

In definitiva, alla stregua delle considerazioni fin qui esposte, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost. La declaratoria deve essere estesa all’intero comma 1, perché gli ultimi tre periodi sono strettamente collegati a quelli precedenti (oggetto delle censure), sicché resterebbero privi di significato a seguito della caducazione di questi.

Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e quindi in via consequenziale alla decisione adottata, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010, limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e» ; d) dell’art. 5, comma 5, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo «computano», anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o) dell’art. 24 del detto decreto legislativo“.